Perché non possiamo non dirci cristiani.

Quando leggo i testi della filosofia classica indiana o ascolto il Maestro Marco Ferrini,  mi viene sempre a mente questo passo di un breve saggio di Benedetto Croce, scritto nel bel mezzo della seconda guerra mondiale (1942):
“la rivoluzione cristiana operò nel centro dell’anima, nella coscienza morale, e conferendo risalto all’intimo e al proprio di tale coscienza, quasi parve che le acquistasse una nuova virtù, una nuova qualità spirituale, che fino allora era mancata all’umanità.”
Fino alla maggiore età ho ricevuto tutti i sacramenti, sento un amore luminoso per il Fondatore che considero uno dei più grandi Maestri dell’umanità e per alcuni dei suoi seguaci antichi e moderni, ma non professo questa religione.
Eppure quando mi trovo davanti alla narrazione vedica, sento in me l’appartenenza alla cultura cristiana, ovvero: pur non essendo cristiano per fede, mi dichiaro culturalmente cristiano. E penso che questa condizione sia più diffusa di quel che immaginiamo.
O almeno lo era fino a qualche decennio fa.
Mi pare infatti che alcuni pilastri di questa “rivoluzione cristiana” di cui parlava B. Croce, stiano pericolosamente sgretolandosi sotto l’urto di un paganesimo contemporaneo, che lungi dal portare una nuova o antica forma di spiritualità, sembra piuttosto una mostruosa antropologia nichilista con una sua propria mitologia, al centro della quale troneggia una fraintesa forma di libertà che è il massimo della schiavitù per l’uomo e la donna contemporanei.
La cosa più sconcertante è che questo velo di maya sembra (e lo dico con umiltà e la speranza di sbagliarmi) coprire l’intelletto di menti brillanti e apparentemente in buona fede.
Non ne faccio una questione morale, ne prendo sociologicamente atto con rammarico, poiché quella “nuova qualità spirituale” che, fra innumerevoli contraddizioni e puntualmente tradita dal clero, tanto ha dato al pensiero occidentale, nella quale mi riconosco e proprio in virtù di essa riesco a confrontarmi con l’alterità indiana e non solo, sembra impotente di fronte alla cattiveria contemporanea (uso “cattivo” in senso etimologico, dal latino captivus che significa “prigioniero”).
Quale forza smisurata può “imprigionare” un’umanità che sembrava così ben avviata verso le magnifiche sorti?
Nel prossimo post tratterò la questione dal punto di vista della cultura indo-vedica così come l’ho ascoltata dal mio maestro Matzsya Avatara Das.
Graziano RInaldi

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