Non sono venuto a portare pace, ma una spada!

Negli anni settanta ho trascorso l’adolescenza e la giovinezza in un paese che dista pochi chilometri da Firenze. In quei tempi e da quelle parti si praticava un bipolarismo perfetto: o la parrocchia o la casa del popolo.
Per quanto gran parte dei miei amici fossero comunisti sfegatati come si usava negli anni settanta, conservavo anche amicizie più vicine alla sagrestia. Quello che mi faceva riflettere, facendo nascere in me incertezze mai sopite, era il fatto che mi parevano più rivoluzionari certi miei amici che si dichiaravano cattolici piuttosto che gli scapigliati giovani dei circoli ARCI.
La vita poi ci ha sparpagliati tutti quanti, sedicenti comunisti e praticanti cattolici e quando rivedo i volti ritoccati, talvolta sfregiati dal tempo di vecchie conoscenze, sento un moto di tenerezza e di timore insieme: com’è stato declinato nella vita di queste persone l’anelito giovanile alla libertà, alla giustizia e alla fratellanza universale che andavano cercando?
Lascio cadere qui la controversa questione psico-sociale e vado dritto verso il cuore della questione: cosa c’era di estremo nella visione dei giovani della parrocchia che me li faceva percepire così radicali?
E’ risaputo quanto siano rivoluzionarie le parabole evangeliche, ma quel “date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” era sempre stata nel mio immaginario il contraltare teorico di una Chiesa storica oppressiva ed oscurantista, tutt’altro che spirito, era per me rappresentata da quei preti che stavano sempre dalla parte sbagliata.
Però, quando ancora adolescente, conobbi un giovane pretino che ci invitava in parrocchia per giocare a pallone,
indipendentemente dalle sfumature politiche, quel giovanotto poco meno che trentenne di cui non ricordo né il nome né la fisionomia, rafforzò in me l’idea latente che il cambiamento più radicalmente positivo a cui gli esseri umani potessero aspirare, non sarebbe venuto da una rivoluzione sociale, ma da qualcosa d’altro che però a quei tempi non riuscivo ad intravedere.
Il giovane prete durò poco, come altri più famosi di lui, fu trasferito in qualche parrocchia periferica e spopolata e fine della storia. Ma la sua fugace conoscenza ravvivò nel mio animo un tarlo che non mi ha mai abbandonato.
Nella tradizione vedica si fa spesso riferimento al quattro, quattro sono le ere che scandiscono il tempo universale, quattro sono gli scopi della vita, quattro sono i varna (categorie sociali) e quattro sono le fasi della vita individuale. Poco prima della fine del secondo quarto della mia vita (50 anni) ho incontrato il Maestro Marco Ferrini ed ho scoperto che quel tarlo era più vivo che mai.
Con grande scetticismo ed interesse mi sono approcciato al racconto narrato nei Veda di cui Matziavatara è Maestro. Dopo qualche decina di seminari ho incominciato a sentire una musica che pensavo di aver dimenticato, non erano i Rolling Stones né i Beatles, era quella del primo quarto di vita, quando la potenza dell’immaginazione è più fervida e caotica, un fiume caldo e torbido che trascina con sé tutto quel che trova. Non dico che sia per tutti uguale, ma se i più anziani riescono a riportare alla memoria i sogni ad occhi aperti dell’adolescenza, credo che ci capiremo.
Durante uno dei tredici seminari sulla Bhagavadgita, ad un certo punto, io che pensavo di essere ben consapevole dell’ottusità sociale del sistema delle caste criticato anche da Gandhi, che aveva ribattezzato i fuori casta harijan, figli di Hari (Dio), incominciai e pensare in un altro modo. Quel “pensare in altro modo” più che scardinare le vecchie convinzioni, mi ha portato a vederle da un altro angolo prospettico.
Ad un certo punto della Bhagavadgita, Krishna invita Arjuna a diventare suo devoto, offrendogli un fiore, un po’ d’acqua, insomma gli dice che quel che conta è il sentimento con cui si offre, non il valore mondano dell’offerta. Sempre nella Bhagavadgita Krishna spiega ad Arjuna che si può definire bramano (la casta più elevata del sistema vedico) solo chi ha certe qualità e non altri, così come per le altre tre caste, la nascita favorisce e non è indifferente, ma quel che vale in definitiva è la coerenza del comportamento.
Ora pensate a quanto doveva essere sovversivo un discorso del genere in una società opulenta come quella classica indiana, dove, al di là del mito, dovevano esserci potentissime e ben articolate élites a tutti i livelli sociali. Una società nella quale il sacrificare ricchezza materiale poteva in certi casi equivalere alle indulgenze della cristianità. Dire poi che sono le qualità di una persona a determinare il suo status sociale è qualcosa di enorme, altro che caste! In termini sociologici non si potrebbe immaginare una società più fluida.
Il messaggio di Cristo si colloca in un contesto storico e sociale completamente diverso, ma è altrettanto se non più sovversivo e ripeto il termine “sovversivo”, perché voglio sottolineare la capacità di sovvertire l’ordine delle cose partendo da qualcosa di molto profondo. Nel mondo classico occidentale ciò che valeva era la potenza, la gloria, l’eroismo e la fama, valori che ritroviamo dagli omeridi alla Roma imperiale. E’ vero che anche in occidente, come in oriente, è sempre esistito un pensiero “sovversivo”, che per definizione non è mai stato il pensiero dominante, esso infatti non si è mai affermato nelle classi popolari com’è successo con la religiosità della Bhakti e col cristianesimo.
Cristo afferma che non il potente, ma il debole, non il ricco, ma il povero, non l’intellettuale, ma il bambino vedrà il regno dei cieli. L’interesse del Messia va agli ultimi, a chi soffre a chi ha fame, ai malati: vi può essere messaggio più sovversivo in una società come la nostra? Ma potevo dire anche quella romana del primo secolo dopo Cristo e non cambierebbe niente.
Studiando gli yoga sutra di Patanjali e praticando il Maestro, ho capito che cosa ci rende effettivamente liberi e non mi meraviglio più se a fronte di un messaggio di così grande libertà intellettuale, sociale, personale e spirituale come quello della Bhagavadgita e del Vangelo, siano state costruiti templi e cattedrali che hanno brutalmente cristallizzato un messaggio fluido e vitale, uccidendo quel Dio che pretendono di lodare per contiguità col potere temporale e per la debolezza di un ego che pochi riescono a controllare.
Forse ai miei amici cattolici non piacerebbe essere definiti dei sovversivi, mi dispiace per loro, ma l’adesione ai principi originari di queste scritture mette l’uomo in guerra con la società, la quale, inevitabilmente tende, quasi fosse una legge di natura, a creare gruppi di potere e a dare spazio ai palloni gonfiati di ego smisurati che tanto dolore hanno arrecato ed arrecano a tutte le creature, al pianeta Terra e sicuramente dispiacciono a Dio.
Graziano Rinaldi

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