Catari e Borboni.

La scorsa estate ho letto un libro assai avvincente dal titolo “Libertà va cercando”  Il catarismo nella Commedia di Dante, di Maria Soresina. Il 2011 è stato anche il centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia. Evidentemente le due cose sono collegate solo nella mia mente: cercherò di spiegare perché.
Già conoscevo qualcosa sui quei particolari cristiani della Francia meridionale chiamati patarini, albigesi, buon cristiani, ecc, molte volte ne aveva parlato anche Marco Ferrini nelle sue conferenze e seminari del CSB.
L’ardita tesi sostenuta nel libro che Dante fosse uno di loro è spiegata in modo articolato e convincente, quello su cui voglio soffermarmi sono però alcuni dati citati nel testo nei quali, durante il XIII secolo è documentata una massiccia presenza catara in Italia. Raniero Sacconi, inquisitore domenicano, nella metà del duecento, sosteneva che a Firenze un terzo della popolazione fosse catara. Soresina ipotizza che i poeti del dolce stil novo, i Fedeli d’Amore, fossero catari, e che lo fossero anche le principali famiglie ghibelline come i Cavalcanti. Il corposo libro che ha allietato la mia estate, riporta una storia reale e sconosciuta ai più o meglio, sottaciuta, quella di una comunità cristiana evoluta e civile che si stava diffondendo molto rapidamente, tanto da minacciare il primato della Chiesa Cattolica. La sua influenza era così importante e diffusa da indurre papa Innocenzo III ad indire una crociata per estirpare “l’eresia”.
La crociata ebbe successo, i catari furono sterminati ed un colpevole silenzio li fece uscire dalla storia. Certamente questa rimozione faceva comodo agli aguzzini e ai loro complici che per vent’anni devastarono e depredarono le ricche province del sud della Francia e siccome la crociata non pose fine a questa civiltà, nel 1231 fu istituita l’Inquisizione, la quale per un altro secolo torturò e mandò al rogo gli ultimi eretici patarini.
Anche il risorgimento è stato un periodo di scontri violenti e di grandi idealità, a mio avviso ben riassunte nel film di Mario Martone “Noi credevamo” con l’attore Luigi Lo Cascio che ben interpreta gli ideali di una generazione mossa da alti sentimenti di libertà e di giustizia e poi disillusa dall’ottusa violenza sabuada, la quale, così come la chiesa medioevale aveva stroncato nel sangue gli eretici, passerà ai plotoni d’esecuzione (sommaria) i “briganti”, che spesso altro non erano che lealisti di uno stato, quello Borbonico appunto, che in centocinquanta anni ci è stato fatto apparire come la quintessenza della corruzione e dell’inefficienza e che invece fu tutt’altro.
Francesco d’Assisi forse scrisse il Cantico delle Creature anche per dialogare con i Catari, del resto egli fu un uomo che andò nell’accampamento dei crociati per dissuaderli dalla folle impresa e tentò persino di convertire il Saladino; il XIII secolo infatti mise in campo un’altissima spiritualità e un’altrettanto enorme crudeltà tra gli uomini. Così il Risorgimento italiano fu attraversato da spinte di altissima idealità e da meschine strategie di dominazione.
Che cosa sappiamo di tutto questo palpitare della storia?
Quella che viene tramandata è la “versione di Barney”, una delle tante possibili e probabilmente quella più favorevole alla parte che ha prevalso, degli “eretici” bisogna informarsi come quando si nuota controcorrente, tra mille difficoltà ed insidie, bisogna uscire dall’illusione, nello spirito e nella carne: questo insegnano i veri maestri, perché ciò che noi chiamiamo “realtà” è molto spesso un gioco di specchi fondato su credenze comuni e condivise, utili per lo più a mantenere lo status quo.
Siamo noi che coltiviamo Maya!

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