La libertà di servire

(Sesta ed ultima lezione di Marco Ferrini al seminario inverno 2010 isola d’Elba)

Il commento di Matsyavatara degli ultimi venti shloka dell’ottavo capitolo, ha messo in luce alcuni snodi fondamentali della Bhagavadgita, un alto concentrato di senso per il quale rimando all’ascolto della lezione e agli appunti che seguono. Propongo alcuni spunti di riflessione sul rapporto tra “paramam gatim”, il fine supremo, e la rivoluzione interiore che è necessaria all’uomo contemporaneo per poter comprendere un diverso senso di libertà, temi sviluppati da Marco Ferrini in questa breve lezione. Se provassimo a chiederci qual’è il nostro scopo supremo cosa sinceramente risponderemmo? Scoprire quale sia il nostro desiderio fondante rivela la nostra natura. Generalmente e legittimamente, chi è povero desidera avere di più, chi è malato cerca la salute, l’anziano rimpiange il vigore giovanile, chi sta in basso vuol salire e chi è in alto vuol rimanerci. Siamo pieni di desideri, essi nascono e muoiono in un attimo o in una vita, ma non ci lasciano mai, ad estirparli dalla o a reprimerli c’è il rischio di privare la vita di senso.
In questi passi della Bhagavadgita, Krisha fa scorgere ad Arjuna un’altra dimensione che ribalta la nostra idea di libertà individuale. Qui la libertà non si fonda più sulla soddisfazione dei desideri mondani, ma su un desiderio che viaggia in una dimensione diversa: “Esiste tuttavia un’altra natura non manifestata, che è eterna e trascende la materia… essa non perisce quando tutti gli esseri periscono.” Veniamo invitati ad un rovesciamento di prospettiva nella quale i normali desideri mondani mostrano la loro natura di attaccamenti illusori che trasformerebbero la vita in una prigione. Qui sta lo “zoccolo duro” della questione: il mondo delle condizioni è una realtà su un piano talmente effimero che è realistico affermare non possa esservi felicità. La felicità appartiene ad un piano di realtà diverso, ciò che a noi appare normalità altro non è che una forma di sofferenza, nella migliore delle ipotesi in potenza. La vera libertà consiste nello yoga, nel collegamento col fine supremo, con lo Spirito, “che non perisce…”.
Il postulato di tante religioni è che questo mondo sia una “valle di lacrime”, chi abbia una minima e consapevole esperienza della vita e del mondo sa quanto sia vero. Allo stesso tempo però in questa dimensione si possono scorgere bagliori di quella bellezza eterna, immutabile e gloriosa che ci affascina e ci lega al mondo della materia. Armonia, amicizia, bontà, alti ideali che spingono a sacrifici dolorosi, la bellezza e la complessità del creato e delle creature, tutto questo e altro ci rimanda a qualcosa di inafferrabile che lo sottende, inesprimibile dalla mente umana, tanto da far dire a Francesco d’Assisi “…et nullu homo ‘ene dignu te mentovare”, talmente inaccessibile che solo attraverso la glorificazione delle Sue creature è possibile “laudarlo”, oltre è superbia.
Noi possiamo però “pensare” allo Spirito Supremo, possiamo lasciarci affascinare fino a vedere che siamo parte di quel tutto che si dispiega nell’universo, ottenendo la connessione col Divino, in modalità diverse secondo la propria personalità. Il modo migliore per connettersi è quello di offrirsi, di servire, nel mondo dello spirito come in quello della materia. Dunque la felicità non è impossibile nel mondo delle condizioni, tutto ciò che è sattvico può essere uno strumento per collegarsi, che è la stessa cosa che dire “yoga”. E difatti il Cantico di frate sole finisce con queste parole: “…et serviateli, cum grande humilitate”.
Graziano Rinaldi
P.s. Se la contemplazione del mondo può essere una lama a doppio taglio, da cosa ci accorgiamo, quali sono i segni, le emozioni, i sentimenti e il comportamento di chi contempla il bello e il fascino della complessità che c’è nella materia essendo collegato a Dio? Quali sono invece i sintomi di chi ne gode egoisticamente? E qual’è, se c’è, il punto di passaggio tra una modalità e l’altra? Invito a leggere gli appunti tenendo presente questa domando e… provando a rispondere.

Fede che pensa, fede che agisce, fede che ama.
di Marco Ferrini
APPUNTI DIRETTAMENTE DALLA LEZIONE A CURA DI Graziano Rinaldi
02 gennaio pomeriggio
Sesta lezione di Marco Ferrini

11. Krishna non privilegia la categoria di cui sta parlando ma non avrebbe potuto non menzionarla tra le vie di liberazione perché era la religione dominante: “le persone esperte nei Veda (i sacerdoti)”. Krishna aveva già messo in guardia rispetto ai Veda, perché sebbene essi, insegnando come gestire gli attaccamenti, servano per seguire un buono standard di vita in questo mondo, sono il massimo di virtù che esiste, ma non si esce dal paradigma spazio-temporale con i Veda, Krishna dice che “le persone meno intelligenti seguono i Veda”, la devozione è molto superiore alla pratica ritualistica, alla liturgia dei Veda del sacrificio, all’offerta di oblazioni. Sebbene anche queste persone entrino nell’aspetto del brahman, vedono la Natura e cosa le fa muovere.
12. Con la mente concentrata, collegata, questa è la cifra conclusiva dello yoga. Questa è un’altra categoria dominante la religiosità di quei tempi, gli yogi, che non si vedevano in giro per le strade, nei templi, ai festival, erano persone che se ne andavano nella foresta. Krishna menziona che anche loro possono raggiungere il brahman, la loro caratteristica consiste nello: “staccarsi da tutte le attività dei sensi”.
13. Si parla della eka aksharam, la sillaba unica (om), la vivibrazione del brahman, questa categoria di persone non è assimilabile alle precedenti, ma distinguibile per il fatto che esse “pensano a Me”, è Krishna che parla, non c’è più una collocazione generica nel Brahman, una vaghezza di tipo spirituale, dice che queste persone “pensano a Me”. Param gathi significa raggiungere lo scopo supremo, la destinazione suprema. I sacrifici, i mantra, rimangono strumenti efficaci per concentrare la mente, ma qui non è più l’atto liturgico, qui è entrato un nuovo ingrediente che è il leit motive della Bhagavadgita: la devozione, qui è Dio stesso che ci dice: chi ricorda Me (che ha la mente concentrata su di Me) raggiunge la meta suprema. Il fine supremo che ci indica il Signore non è l’eterna giovinezza, il potere, la ricchezza, ecc. tutto sta nel ricordare Krishna. Se noi ci ricordiamo di Dio, tutto il resto è “abbonato”. Non è richiesto di conoscere a memoria le scritture o di soffrire pene mortificanti, serve “ricordare il Signore”. Quello che conta non è la teologia e l’ascesi e neanche offrire sacrifici, ma “pensare” a Dio. Questo è un punto fondamentale della Bhagavadgita. Questa è la supremazia della bhakti rispetto a tutti gli aspetti della religione, la teologia, l’ascesi, i sacrifici, pensare a Dio è sempre disponibile per tutti. Evocando il nome di Dio si evoca Dio stesso, questa è la lezione di Caytania, è nella forma del nome che Krishna è avatara di kali yuga.
14. Yoga è servizio devozionale, yoga è connessione e non c’è miglior modo di connettersi a qualcuno che servendolo. Servire è il miglior modo di connettersi, ecco perché Prabhupada traduce “bhakti yoga” e “buddhi yukta” con “devotional service”.
Chi è costantemente consapevole di Krishna non si accorge della morte, come il serpente che cambia pelle, così noi usciamo col siddha deha dalla carcassa del corpo fisico, questa è la morte più dolce. Quando si arriva alla consapevolezza perenne (satatan) allora capiamo che l’energia che fa muovere all’unisono 50 trilioni cellule o un organismo mono cellulare è la stessa, che tutto fa parte della stessa coscienza, situandosi in questa coscienza.
15. e 16 E’ una questione evolutiva, chi si è disintossicato liberandosi da schiavitù, dipendenze, attaccamenti che appaiono come gioielli d’oro e invece sono catene di ruvido metallo, e gusta la libertà, la quale è quasi impossibile pensarla a causa dell’enorme tempo in cui le persone sono state sottoposte a questi limiti, è qualcosa di non descrivibile, per questo avviene un pò per volta, non può essere che così perché la persona deve riformarsi nella libertà. Quando la libertà è riconquistata, come esito di migliaia di combattimenti e conquiste fatte una per una e senza mai deviare, la persona conserva la memoria, se invece devia l’oblio spazza tutto. Questo mondo anestetizza la sofferenza che è il dato costante di questo oceano di morti e rinascite, questo non è un posto tranquillo dove ce la possiamo godere, solo una dose massiccia di illusione permette di pensare una cosa del genere, i buddisti lo chiamano il perenne dolore, i cristiani la valle di lacrime. Mondo temporaneo significa impermanente, non si fa a tempo ad afferrare qualcosa di piacevole che è già sfuggito di mano. Qui non c’è nessuna possibilità di essere felici, se continuiamo ad innamorarci delle illusioni arriviamo a fine corse che c’è da rifare tutto da capo sprecando un’altra vita senza trovare nessuna sicurezza che cercavamo.
Non è questione di un pianeta o di un altro “sono luoghi di miseria soggetti al continuo ritorno”, in tutti i pianeti dell’universo le cose non vanno diversamente.
17-20 Brahman è il primo essere creato e domina il panteon vedico, egli dà la vita al mondo manifesto, ma le energie di cui dispone, il materiale di cui dispone, non sono sue, è una creatura che costruisce per le altre creature il mondo così come lo vediamo, dispone delle otto categorie d’energia e crea i mondi i quali vengono misurati nella loro esistenza con il parametro della vita di questo demiurgo che utilizza le energie a disposizione. Nasce dall’ombelico di Vishnu e si mette a costruire questo universo manifestandolo su di un modello che impara facendo tapassia, attraverso tapas l’intelligenza creativa si attiva, manifesta non solo i pianeti ma anche tutti gli abitanti, uomini, deva, asura e tutti gli altri esseri, tutte le forme che possiamo incontrare nei tre mondi e queste manifestazioni avvengono sulla scorta delle potenziali di ciascun individuo, ovvero tornano a manifestarsi coloro che per 4 miliardi e 320 milioni di anni terrestri sono rimasti nell’oblio come una sorta di letargo, vengono fornite di nuovo della possibilità di agire, ritrovano i loro corpi, le loro illusioni, i loro veicoli, si riappropriano delle loro energia. Brahman riattiva tutti coloro che non ce l’avevano fatta nella fase manifesta (aviakta). La notte di cui si parla è la notte cosmica, tanto è il tempo in cui la manifestazione si manifesta tanto è quello in cui non è manifesta. E’ tutto ciclico.
20-21. Quindi possiamo vivere in diverse dimensioni, molte sono parallele e coesistenti. Solo una visione miope fa vedere questa come unica dimensione, è un gravissimo errore, sono simultaneamente esistenti più dimensioni. Vi sono dimensioni in cui diversi esseri vivono contemporaneamente senza che gli uni abbiano percezione degli altri. Esiste una dimensione in cui non c’è ne aviakta né viakta, non c’è nè inizio nè fine, quella è la dimensione suprema, Dio.
22. Dio è la persona suprema perché non è la coscienza più grande ma perché è la somma delle coscienze. Ecco perché quando ci abbandoniamo a Dio si realizza felicità: perché è come se fossimo sostenuti da tutti, ecco perché chi è sostenuto da Dio non ha bisogno di nessun altro. E’ questa l’autonomia che colpisce nella personalità dei santi. Chi ha bisogno di riconoscimenti è in una posizione di grande debolezza, quando invece una persona si sente realizzata in dio non ha più bisogno di essere lodato dagli umani.
Dio può essere raggiunto solo con la devozione, si dice che l’ascesi non è sufficiente, ma è indispensabile, perché l’ascesi seppure non ricercata a tutti i costi, ma accettata nella minima misura che si presenta come disagio quando desideriamo offrire qualcosa di bello a Dio, allora è indispensabile. Non è il fatto ma la motivazione che genera il fatto, bisogna cercare la devozione.
23-27 Da tempo immemorabile si sa che chi lascia col sentiero della luce raggiunge i mondi più elevati e non torna più, ma chi esce con le tenebre (inconsapevolezza) è costretto a tornare. Quindi c’è la via solare, immortalità, luce, consapevolezza e quella della luna che vuol dire tornare per integrare la consapevolezza insufficiente.
In tutti i modi cerca di descrivere la luminosità della consapevolezza e la tenebra dell’inconsapevolezza.
In sintesi tra tutti gli yoga quello più sicuro è lo yoga della devozione che permette il raggiungimento del livello più elevato attraverso questo spirito di darsi, di abbandonarsi. A prescindere da tutti i tipi di yoga (religione=religere=congiungere=yoga) al momento della morte tutti questi yogi sono provati, se hanno consapevolezza vanno e non tornano altrimenti torneranno.
La consapevolezza si sviluppa con la devozione e l’inconsapevolezza lasciandoci andare al godimento dei sensi. La bellezza come esperienza estetica nella bhakti non è proibita, l’importante è non esserne travolti, non perdere la consapevolezza, ma arricchirci della bellezza di qualsiasi tipo. Non è la contemplazione del mondo ad essere pericolosa, ma quando da questa contemplazione si esclude Dio. Ma se contemplando il mondo facciamo un complimento a Dio e la mettiamo immediatamente al suo servizio con purezza, allora anche quella contemplazione diventa uno strumento della bhakti. Si può riconoscere la bellezza del mondo purché non ce la godiamo disgiunta dal Creatore, purché non getti ombra su di noi, non ci si faccia travolgere dalla bellezza e dal piacere che pure c’è nel mondo, ma quel piacere è una briciola impermanente della natura, della gioia della dimensione spirituale. Se colleghiamo le bellezze divine alle bellezze del mondo allora il mondo non diventa pericoloso e si può apprezzarne tutte le manifestazioni perché riconosceremo che questa complessità ha un disegno ed è questo che bisogna capire e lo si capisce dall’intuizione.

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