Miseria e Nobiltà dell’India Contemporanea

All’interno dei confini indiani, lungo i 2.500 chilometri del Gange, vivono più di mezzo miliardo di persone, si tratta di una delle aree più popolose del pianeta. Vrindavan si trova a meno di 200 km da New Dheli, entrambe sulla Yamuna, il più grande affluente del Gange; Mayapur invece è poco distante da Calcutta, vicino al delta, nel Bengala occidentale.
Per la tradizione rappresentata dalla guida spirituale e riformatore religioso A.C. Bhaktivedanta Swami Prabhupāda (fondatore dell’ISKCON – International Society for Krishna Consciousness 1896-1977), Vrindavan e Mayapur sono luoghi che testimoniano fatti importanti: a Vrindavan trascorse la giovinezza Krishna, mentre a Mayapur nacque Śrī Caitanya Mahāprabhu, mistico e riformatore religioso venerato come incarnazione di Krishna e fondatore del movimento Gaudiya Vaiṣṇava, 1586-1534.
Ho soggiornato in entrambe le città e sebbene sappia di muovermi su un terreno accidentato, desidero condividere alcune emozioni e riflessioni.
Mayapur non è una città, bensì un insediamento religioso, cuore spirituale e centro mondiale del movimento ISKCON. Vrindavana invece è una vera e propria città santa, con popolazione stabile di circa 70.000 persone, entrambi luoghi di pellegrinaggio per milioni di persone.
L’impatto di Vrindavan mette subito alla prova l’estetica e la mentalità occidentale.Vi sono centinaia di templi, di cui uno moderno, il più maestoso, che in un mausoleo accoglie le spoglie mortali del fondatore dell’ISKCON. Ho frequentato il tempio per una settimana, partecipando ai riti anche durante alcune ricorrenze particolarmente importanti.
Il contrasto tra la ricchezza del tempio e la diffusa povertà della città fa riflettere: serviva un altro tempio, peraltro così sontuoso, in una città che non ha ancora le fognature coperte? Perché questo culto così sentito e praticato, che dalle nostre parti definiremmo non benevolmente “culto della personalità”, verso una guida spirituale contemporanea? Com’è possibile che in mezzo a questa povertà vi sia un impegno così forte per progetti tanto ambiziosi e dispendiosi?
Non parliamo poi dei templi di Mayapur, di cui uno ancora in costruzione, destinato a diventare uno dei templi più grandi del mondo, con la cupola principale di circa 113 metri (più alta della cupola di San Pietro a Roma).
Secondo i Purāṇa, non un tempio, ma una foresta, Naimiṣāraṇya, è il luogo più sacro per compiere sacrifici vedici (yajña). Sebbene gli stessi Purāṇa contengano molte descrizioni di luoghi sacri e di templi, non usano sempre la parola “tempio” (mandira), ma parlano di tīrtha (luogo sacro, di pellegrinaggio) e di mūrti (icone divine) collegate a precise località.
Nell’immaginario occidentale l’India è il paese degli asceti rinuncianti più che dei monaci conventuali. C’è qualcosa di vero in questo, poiché, come accennato sopra, la cultura vedica originaria sembra che celebrasse il culto tramite sacrifici all’aperto, centrati sul fuoco. Anche in occidente molti riti pubblici e iniziatici venivano praticati in natura e non erano “primitivi” nel senso di meno evoluti di quelli successivi, ma semplicemente “più antichi”. Pensiamo ad esempio ai riti orfici e alla spiritualità del deserto, si trattava di piccole comunità iniziatiche riunite intorno a un sacerdote, similmente a una delle istituzioni spirituali più caratteristiche della tradizione indiana, l’ āśrama, comunità collocate in luoghi tranquilli, come foreste e rive di fiumi, in semplici capanne con spazi comuni, a volte templi o sale di meditazione; non erano “città”, ma piccoli insediamenti organizzati intorno a un guru che insegnava e guidava i discepoli.
Quella però era un’altra umanità e un’altra società.
Quali spazi oggi avrebbero per praticare la loro devozione le moltitudini di devoti e pellegrini che quotidianamente si riversano nei moderni e grandi templi di Vrindavan e Mayapur?
Ho testimoniato personalmente quanto profonda sia l’identificazione con la tradizione religiosa da parte del popolo indiano, nella cui pancia si trovano tanti indigenti, eppure, ricchi o poveri, tutti manifestano sinceramente un legame fortissimo verso le Divinità e Shrila Prabhupada. Il tempio è una democrazia realizzata nei cuori.  La sovrabbondanza delle dimensioni, degli addobbi, la ricchezza delle forme, dei colori, il pregio delle decorazioni, la profusioni di fiori e ghirlande, tutto così “maha” (grande), non è forse il tentativo di connettersi alla incontenibile immensità divina?
La monumentalità del tempio, le reliquie della guida spirituale, l’adorazione delle divinità vissute come presenti nei metalli in cui sono state forgiate e sotto alle infinite ghirlande di fiori, sono il baricentro della vita dei milioni di devoti che si sobbarcano pellegrinaggi non sempre in prima classe: non l’estetica e le smanie di grandezza, ma l’utilità qui è il principio, utilità spirituale e della vita pratica.
La sacra liturgia dei brahmani, l’esultanza dei fedeli, il suono orgiastico di tamburi e cembali, l’ieratico tuono delle conchiglie alzate alle labbra con un gesto antico, il disordine organizzato della folla che canta, danza, porge gli omaggi a Prabhupada e alle divinità, il rispetto e l’accoglienza per chiunque si trovi nello spazio sacro, il cuore aperto delle persone comuni. Proprio loro, una quantità di giovani e giovanissimi inimmaginabile in una chiesa occidentale, loro che partecipano al rito con un’intensità commovente, sorridenti dentro, e ti chiedi se non sia una compensazione della loro condizione sociale non sempre brillante.
Non lo è.
Al contrario è proprio l’adesione naturale alla loro tradizione che li colloca sul piano spirituale, della libertà a prescindere, la quale non ignora il degrado, l’ingiustizia sociale e la sofferenza, ma li comprende e se necessario li combatte, ma con una nobiltà di spirito ben incarnata da quel movimento della testa tipico degli indiani, che non sai se sia un assenso o la tolleranza per i tuoi comportamenti barbarici.
Shrila Prabhupada non è stato solo un riformatore religioso, ha avuto la lungimiranza del santo e l’intelligenza del saggio. Non amava l’occidente, detestava il sistema industriale che sapeva essere intrinsecamente bellico, e avrebbe fatto volentieri a meno di imbarcarsi per New York. Poi però, con la tolleranza e la fermezza dei grandi guru, dopo aver messo radici in occidente, è tornato in India e ha dato “acqua alle radici” della tradizione. L’albero è cresciuto più velocemente di quel che forse si aspettava, e con la sua ombra sta dando vigore e dignità a un popolo martoriato da conquiste territoriali e colonialismo culturale.
Contemporaneamente ha dimostrato che non c’è oriente e occidente, ma anime che anelano a tornare a casa.
Graziano Rinaldi

6 settembre 2025

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